Majazzin House Gallery è il nome che identifica una abitazione settecentesca, ex magazzino di cereali delle monache del Conservatorio del Carmine, in cui l’allestimento degli spazi varia grazie al susseguirsi di esposizioni di opere e installazioni di artisti contemporanei.
L’abitazione è quella di Sante Cutecchia, architetto e l’idea nasce grazie alla presenza di due artisti che in più occasioni hanno sperimentato simili progetti: Giovanni Matteo, illustratore, fumettista e pittore e Caterina Striccoli, ceramista, entrambi insegnanti di arte.

domenica 30 giugno 2013

Working Classics - Marcello Nitti
















Majazzin propone le opere del giovane pittore tarantino Marcello Nitti. È probabile che trovarsi in una stanza con i suoi dipinti appesi alle pareti possa dare, sulle prime, l’impressione di essere ad una retrospettiva sulla pittura dell’Ottocento. Poi, se si ha un po’ d’occhio, si può realizzare che c’è anche del Seicento e che lo stile dei grandi ritratti che scorrono lungo le pareti spazia dal preraffaelitismo al classicismo, dal simbolismo alla Previati a delle sintesi di gusto secessionista. Eppure, se ci asteniamo dal fare i connoisseur della domenica, questi scioccanti salti spazio – temporali li percepiamo come semplici sfumature su una sola grande campitura di colore o come piccole smagliature in un intreccio altrimenti regolare di trama e ordito.
C’è un’inafferrabile omogeneità nella produzione di Nitti e non è certo quella che una volta era concesso chiamare “la mano dell’artista” a darci la sua cifra stilistica. Saremmo davanti a dell’ottimo e colto citazionismo, se dietro l’opera di questo pittore non ci fosse una vera e propria regia.
È vero, la sua abilità di pittore è impressionante, in tempi nei quali qualcuno beneficia ancora di una quanto mai tardiva comprensione del fascino della “bad painting”, ma non è la figura del maestro colto e tecnicamente ineccepibile quella che il nostro merita di vedersi cucita addosso.
Quello di Marcello Nitti mi ha fatto pensare più al lavoro di Bill Viola che a quello dei pittori citazionisti. La Storia dell’Arte, per Viola, è un grande giacimento di emozioni, smorfie, pose, personaggi da riportare nel flusso della vita attraverso il video e la fotografia. Masolino e Caravaggio insegnano ad abbandonare lo sguardo neutro e l’ironia postmoderna che hanno inaridito l’arte e la sensibilità contemporanee.
Allo stesso modo, Nitti non è un imbalsamatore di cadaveri pittorici e la sua non è un’operazione freddamente concettuale né tantomeno una provinciale dimostrazione di bravura.
Nelle sale dei grandi musei Nitti effettua i suoi casting e chiaroscuri, velature, prospettive sono il suo modo di gestire in perfetta autonomia il set, senza un tecnico delle luci e del suono, senza aiuto regista e cameraman. I suoi interpreti sono oscuri signori e diafane fanciulle dell’alta società di un tempo in cui la fotografia non c’era ancora ed il suo set è la pittura. Fa film di pittura, film storici girati con la pignoleria e lo sguardo allucinato di Kubrick, sostituendo alle scenografie ed alle macchine da presa lo stile del grande maestro del pennello che meglio si adatta a girare la scena.
Per lo più si tratta di storie. Storie che l’artista crede valga la pena di raccontare. Qualche volta storie di personaggi che mostrano i segni della malattia o piccole deformità, ma non si tratta di un tentativo di sconvolgere o solleticare il gusto dell’orrido: semplicemente, Nitti sceglie democraticamente i suoi soggetti e non crede all’esistenza di una netta linea di demarcazione tra il bello e il brutto.
Ci sono elementi, nei ritratti di questo giovane pittore, che inizialmente mi hanno creato una certa perplessità: piccoli anacronismi come un paio di cuffie stereo che pendono dal capo di una figura rembrandtiana o l’espansore che campeggia sul lobo dell’orecchio di un bolso borghese ottocentesco.
È la solita trovata che assicura all’artista una riconoscibilità immediata? Del tipo: “Ah, sì, Nitti, quello che mette le cuffie ai parrucconi del Seicento”. Invece questi frammenti di presente si schiudono solo ad uno sguardo approfondito e rivestono un ruolo fondamentale nell’economia della composizione. Sono smagliature nella griglia concettuale delle opere, ma non si tratta di semplici divertissement: l’artista riflette sulla leggibilità di un’opera in relazione al contesto storico e culturale a cui appartiene. Prendiamo Bosch: per decenni si è creduto che fosse un pazzo visionario o un surrealista ante litteram, mentre i suoi dipinti erano enunciati perfettamente comprensibili per l’uomo della sua formazione culturale e del suo tempo, che vi coglieva addirittura un messaggio edificante.
Cosa succede, allora, quando il sistema di segni e significati alla luce del quale un’opera è stata concepita decade? Siamo costretti a confrontarci con essa non più come se fosse un organismo vivente e parlante, ma come ci approcciamo alla conoscenza di una civiltà attraverso i ritrovamenti nelle sue necropoli.
Nitti, così legato all’arte del passato, sente il dramma di questa verità ma reagisce con ironia, agitando le acque delle sue opere con questi sorprendenti quanto discreti anacronismi, ma anche con gli schizzi, le screpolature e le sgocciolature che si presentano spesso sulla superficie dei suoi dipinti.
Il pittore anticipa, così, il deterioramento materiale delle sue opere, alludendo alla labilità dei loro aspetti concettuali e manifestando il disagio dell’artista per la velocità con cui oggi i riferimenti culturali che partecipano alla costruzione di un’opera perdono di senso, rendendone la vita estremamente breve.

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