Majazzin propone le opere del giovane pittore tarantino Marcello Nitti. È probabile che trovarsi in una stanza con i suoi dipinti appesi alle pareti possa dare, sulle prime, l’impressione di essere ad una retrospettiva sulla pittura dell’Ottocento. Poi, se si ha un po’ d’occhio, si può realizzare che c’è anche del Seicento e che lo stile dei grandi ritratti che scorrono lungo le pareti spazia dal preraffaelitismo al classicismo, dal simbolismo alla Previati a delle sintesi di gusto secessionista. Eppure, se ci asteniamo dal fare i connoisseur della domenica, questi scioccanti salti spazio – temporali li percepiamo come semplici sfumature su una sola grande campitura di colore o come piccole smagliature in un intreccio altrimenti regolare di trama e ordito.
C’è
un’inafferrabile omogeneità nella produzione di Nitti e non è certo quella che
una volta era concesso chiamare “la mano dell’artista” a darci la sua cifra
stilistica. Saremmo davanti a dell’ottimo e colto citazionismo, se dietro
l’opera di questo pittore non ci fosse una vera e propria regia.
È vero,
la sua abilità di pittore è impressionante, in tempi nei quali qualcuno beneficia
ancora di una quanto mai tardiva comprensione del fascino della “bad painting”,
ma non è la figura del maestro colto e tecnicamente ineccepibile quella che il
nostro merita di vedersi cucita addosso.
Quello
di Marcello Nitti mi ha fatto pensare più al lavoro di Bill Viola che a quello
dei pittori citazionisti. La Storia dell’Arte, per Viola, è un grande
giacimento di emozioni, smorfie, pose, personaggi da riportare nel flusso della
vita attraverso il video e la fotografia. Masolino e Caravaggio insegnano ad
abbandonare lo sguardo neutro e l’ironia postmoderna che hanno inaridito l’arte
e la sensibilità contemporanee.
Allo
stesso modo, Nitti non è un imbalsamatore di cadaveri pittorici e la sua non è
un’operazione freddamente concettuale né tantomeno una provinciale
dimostrazione di bravura.
Nelle
sale dei grandi musei Nitti effettua i suoi casting e chiaroscuri, velature, prospettive
sono il suo modo di gestire in perfetta autonomia il set, senza un tecnico
delle luci e del suono, senza aiuto regista e cameraman. I suoi interpreti sono
oscuri signori e diafane fanciulle dell’alta società di un tempo in cui la
fotografia non c’era ancora ed il suo set è la pittura. Fa film di pittura, film
storici girati con la pignoleria e lo sguardo allucinato di Kubrick,
sostituendo alle scenografie ed alle macchine da presa lo stile del grande
maestro del pennello che meglio si adatta a girare la scena.
Per lo
più si tratta di storie. Storie che l’artista crede valga la pena di
raccontare. Qualche volta storie di personaggi che mostrano i segni della
malattia o piccole deformità, ma non si tratta di un tentativo di sconvolgere o
solleticare il gusto dell’orrido: semplicemente, Nitti sceglie democraticamente
i suoi soggetti e non crede all’esistenza di una netta linea di demarcazione
tra il bello e il brutto.
Ci sono
elementi, nei ritratti di questo giovane pittore, che inizialmente mi hanno creato
una certa perplessità: piccoli anacronismi come un paio di cuffie stereo che
pendono dal capo di una figura rembrandtiana o l’espansore che campeggia sul
lobo dell’orecchio di un bolso borghese ottocentesco.
È la
solita trovata che assicura all’artista una riconoscibilità immediata? Del
tipo: “Ah, sì, Nitti, quello che mette le cuffie ai parrucconi del Seicento”.
Invece questi frammenti di presente si schiudono solo ad uno sguardo
approfondito e rivestono un ruolo fondamentale nell’economia della
composizione. Sono smagliature nella griglia concettuale delle opere, ma non si
tratta di semplici divertissement:
l’artista riflette sulla leggibilità di un’opera in relazione al contesto
storico e culturale a cui appartiene. Prendiamo Bosch: per decenni si è creduto
che fosse un pazzo visionario o un surrealista ante litteram, mentre i suoi dipinti erano enunciati perfettamente
comprensibili per l’uomo della sua formazione culturale e del suo tempo, che vi
coglieva addirittura un messaggio edificante.
Cosa
succede, allora, quando il sistema di segni e significati alla luce del quale
un’opera è stata concepita decade? Siamo costretti a confrontarci con essa non più
come se fosse un organismo vivente e parlante, ma come ci approcciamo alla
conoscenza di una civiltà attraverso i ritrovamenti nelle sue necropoli.
Nitti,
così legato all’arte del passato, sente il dramma di questa verità ma reagisce
con ironia, agitando le acque delle sue opere con questi sorprendenti quanto
discreti anacronismi, ma anche con gli schizzi, le screpolature e le
sgocciolature che si presentano spesso sulla superficie dei suoi dipinti.
Il
pittore anticipa, così, il deterioramento materiale delle sue opere, alludendo
alla labilità dei loro aspetti concettuali e manifestando il disagio dell’artista
per la velocità con cui oggi i riferimenti culturali che partecipano alla
costruzione di un’opera perdono di senso, rendendone la vita estremamente breve.
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